Sono partita per l'America con un inglese ben stampato nella testa: quello che ho studiato per tantissimi anni e che mi hanno insegnato a scuola. Pensavo di sapermela cavare bene con la grammatica, la coniugazione dei verbi, la quantità di parole che conoscevo.. insomma un po' con tutto.
Arrivata io in Minnesota però, è arrivata con me anche l'amara scoperta che la mia lingua non la capiva nessuno. E non parlo dell'Italiano, parlo purtroppo dell'inglese. Non sapevo di essere British finché mi è risultato difficile comunicare con gli Americani anche sulle cose più banali. Perché loro non parlano inglese, loro parlano in slang.
La mia primissima confusione fu sul famoso surname. Chiedevo il cognome dei miei compagni di classe per salvare i numeri in rubrica, ma nessuno capiva cosa volessi da loro. Mi avranno presa per pazza mentre mi impegnavo tantissimo a dire suuuuurnaaame con la pronuncia più buona possibile e nel modo più lento e scandito che potessi, ma loro, niente. Alla fine Katlyn scoppiò a ridere a fianco a me guardando il telefono, quando cercando su google aveva capito si trattasse del lastname.
Di lì in poi, per tutto l'anno una serie di mie scoperte di questa nuova lingua, tra cui quella amara di dover ricominciare da capo su molti aspetti, cancellando quello che avevo imparato prima a scuola (e ora tornata in Italia, sono intenta nel processo inverso, cioè dimenticare l'Americano e riprendere l'inglese anglosassone.. sembra una barzelletta). Queste due lingue infatti sono davvero diverse, e ci vuole poco a smontare tutte le vostre conoscenze e farvi capire quanto dall'altra parte dell'oceano sareste incomprensibili.
Ricordate una delle primissime parole imparate alle elementari per descrivere le abitazioni? Flat, appartamento. Beh in America flat è solo ciò che è schiacciato, perché un appartamento è un apartment.
Carrozzina per bambini per me era pram, ma poi ho scoperto che lì pram è il modo dialettale per dire 'ballo di fine anno' e che passeggino si dice baby carriage.
La lattina non è tin, ma è can, e se non lo sapete dovete tenervi la sete. Così come l'armadio si dice closet, e non wardrobe, ma in questo sarete in entrambi i casi facilmente comprensibili.
Veramente confusionari sono il biscotto, non biscuit ma cookie, e la benzina che si dice gas (e non petrol). Per non dimenticare poi la mia fantastica gaffe con la host mum, quando a inizio Settembre mi chiese se a scuola volessi la hot lunch e io le dissi che preferivo pasti freddi perché faceva ancora troppo caldo per le zuppe. Ma hot lunch è la school dinner britannica, cioè semplicemente il pranzo della mensa scolastica. Per cui la scena è stata del tipo ''vuoi mangiare a mensa?'' ''no, preferisco pasti freddi''
Proseguendo con gli esempi abbiamo i pantaloni che non sono trousers, ma pants, e a sentire questo nome nelle conversazioni pensavo si parlasse di mutande. E le scarpe da ginnastica sneakers e non trainers.
Ma se fino ad adesso questo sono solo alcune delle parole che potrebbero semplicemente creare difficoltà di comprensione in una conversazione, ce ne sono altre che hanno un significato completamente diverso tra inglese britannico e americano.
Tanti miei amici italiani in America si sono ritrovati a chiedere un preservativo in classe, quando in realtà volevano semplicemente una rubber, cioè una gomma per cancellare.
E poi non nego che è stato difficile per me durante i compiti in classe imparare a scrivere le finali in -or anziché -our (color/colour, flavor/flavour), oppure in -ize invece di -ise (recognize/recognise), altrimenti facevo errori, anche se poi il correttore automatico dei computer in classe mi ha salvata tante volte.
Aprile 2016 e intanto mi trovo ancora nel limbo tra America e Inghilterra: non so quale lingua so meglio e quale invece dovrei sapere. Per il momento mi accontento di conoscerlo bene in generale, l'inglese, ma le mie amiche su Skype continueranno a ridere dei miei you e so pronunciati da Londinese perché per loro ormai non sono più americana ma una British straniera.
giovedì 7 aprile 2016
giovedì 31 marzo 2016
L'importanza di leggere
Abbiamo sei, sette anni forse, quando ci sentiamo dire per la prima volta 'ma perché non leggi un bel libro?'; qualche anno in più quando uno di questi bei libri ci viene regalato per il compleanno al posto del solito giocattolo. Da lì in poi per molti è una vita di lettura, per altri un continuo buon proposito (quest'anno leggo almeno un libro!, ma poi, alla fine, niente).
Ma perché bisognerebbe leggere?
Insegnare a scrivere, a pensare, dare spunti di riflessione, educare, ispirare, questi alcuni degli obiettivi di un libro. Ma più che la mancanza di questi insegnamenti, ciò che davvero sfugge a chi non si è mai voluto dedicare alla lettura, è la possibilità di vivere una vita infinitamente più lunga e ricca di quanto ci è per natura destinato. Una vita vissuta non solo con i propri occhi, ma con quelli di qualsiasi personaggio di cui si sono seguite le vicende in un libro.
La propria esistenza, grazie alla lettura, si arricchisce di quella di mille altri, si dilata da qualche decennio a diversi millenni, fa proprie esperienze al di là di quelle vissute in prima persona.
La lettura insomma dà immortalità, all'indietro, come il recentemente scomparso Umberto Eco sosteneva. Lui che di anni sentiva di averne vissuti cinquemila, perché era lì, nelle vicende di tutti i suoi libri, e in quelle di altri.
In questa prospettiva, davvero la lettura diventa qualcosa di imprescindibile: leggere è una necessità, uno strumento per conoscere il mondo passato, quello di oggi e noi stessi che ne facciamo parte.
Il rapporto tra uomo e letteratura è d'altronde un rapporto privilegiato, che va molto indietro nel tempo. L'uomo ha sempre avuto il bisogno di raccontare, e spesso di raccontarsi e di essere ascoltato, e ha trovato nel libro il mezzo migliore per soddisfare tale istinto. Nel racconto di quello o di quell'altro, ognuno può ritrovare sé stesso, la propria vita, le difficoltà vissute e quelle da affrontare.
Non stupisce allora il fatto che nell'era della tecnologia, il libro cartaceo continui ad essere il miglior compagno di molti, e che le librerie spuntino ancora qua e là (affiancate da negozi di iPhone).
Certamente però lo stesso non si potrebbe dire delle nuove generazioni, che, fortemente influenzate dal mondo dei media e dall'avvento dei social network, sembrino aver perso il gusto per la lettura. I loro compagni sono i video live di una showgirl che, perso il cellulare nel mare delle Maldive, si dichiarava sconvolta dall'essere stata costretta a leggere un intero libro non avendo altro da fare.
Gli esempi che ricevono sono tutt'altro che positivi: si inneggia all'ignoranza, all'analfabetismo, alla popolarità nei social network, al giorno d'oggi. Oggi che tra i libri che occupano le posizioni più alte delle classifiche dei più venduti, c'è posto per la biografia di Favij o la nuova interminabile serie di fanfiction dei One Direction (After con tanto di copertina veramente trash).
Ma la lettura è ben altro! E' vivere tante vite in altrettante pagine. E' sentirsi Mowgli sugli alberi e Pi tra le onde, sentire l'odore del mare leggendo i pensieri di Bartleboom.
Leggere è coinvolgimento totale di tutti i sensi, è il guardarsi allo specchio di sfuggita in cerca di un altro sé, perché sembra aver funzionato per Vitangelo, e in quel tentativo ridere del proprio sguardo riflesso speranzoso di vedersi diverso.
Ogni lettore è se ed è tanti altri, ha vissuto il 2000 e il 1700. Eco era presente alla battaglia delle Termopili e all'omicidio di Giulio Cesare, altri avranno spiccato il volo con il gabbiano Jonathan in un tempo indefinito e poi vissuto l'esperienza spirituale di Siddharta.
Ma la lettura, davvero, è ben altro, perfino oltre questo. Perché il valore inestimabile di un libro, paradossalmente, non si può neanche scrivere sulla sua stessa carta. Questo blog, poi, davvero non basterebbe.
La lettura insomma dà immortalità, all'indietro, come il recentemente scomparso Umberto Eco sosteneva. Lui che di anni sentiva di averne vissuti cinquemila, perché era lì, nelle vicende di tutti i suoi libri, e in quelle di altri.
In questa prospettiva, davvero la lettura diventa qualcosa di imprescindibile: leggere è una necessità, uno strumento per conoscere il mondo passato, quello di oggi e noi stessi che ne facciamo parte.
Il rapporto tra uomo e letteratura è d'altronde un rapporto privilegiato, che va molto indietro nel tempo. L'uomo ha sempre avuto il bisogno di raccontare, e spesso di raccontarsi e di essere ascoltato, e ha trovato nel libro il mezzo migliore per soddisfare tale istinto. Nel racconto di quello o di quell'altro, ognuno può ritrovare sé stesso, la propria vita, le difficoltà vissute e quelle da affrontare.
Non stupisce allora il fatto che nell'era della tecnologia, il libro cartaceo continui ad essere il miglior compagno di molti, e che le librerie spuntino ancora qua e là (affiancate da negozi di iPhone).
Certamente però lo stesso non si potrebbe dire delle nuove generazioni, che, fortemente influenzate dal mondo dei media e dall'avvento dei social network, sembrino aver perso il gusto per la lettura. I loro compagni sono i video live di una showgirl che, perso il cellulare nel mare delle Maldive, si dichiarava sconvolta dall'essere stata costretta a leggere un intero libro non avendo altro da fare.
Gli esempi che ricevono sono tutt'altro che positivi: si inneggia all'ignoranza, all'analfabetismo, alla popolarità nei social network, al giorno d'oggi. Oggi che tra i libri che occupano le posizioni più alte delle classifiche dei più venduti, c'è posto per la biografia di Favij o la nuova interminabile serie di fanfiction dei One Direction (After con tanto di copertina veramente trash).
Ma la lettura è ben altro! E' vivere tante vite in altrettante pagine. E' sentirsi Mowgli sugli alberi e Pi tra le onde, sentire l'odore del mare leggendo i pensieri di Bartleboom.
Leggere è coinvolgimento totale di tutti i sensi, è il guardarsi allo specchio di sfuggita in cerca di un altro sé, perché sembra aver funzionato per Vitangelo, e in quel tentativo ridere del proprio sguardo riflesso speranzoso di vedersi diverso.
Ogni lettore è se ed è tanti altri, ha vissuto il 2000 e il 1700. Eco era presente alla battaglia delle Termopili e all'omicidio di Giulio Cesare, altri avranno spiccato il volo con il gabbiano Jonathan in un tempo indefinito e poi vissuto l'esperienza spirituale di Siddharta.
Ma la lettura, davvero, è ben altro, perfino oltre questo. Perché il valore inestimabile di un libro, paradossalmente, non si può neanche scrivere sulla sua stessa carta. Questo blog, poi, davvero non basterebbe.
mercoledì 30 marzo 2016
Come partire per un anno all'estero
Ormai sempre più diffusa, l'internazionalizzazione della scuola e la mobilità giovanile verso altri paesi ha particolarmente interessato l'Italia, specialmente negli ultimi anni.
Migliaia di ragazzi ogni anno lasciano il nostro paese per trascorrere un periodo (da 3 a 12 mesi) all'estero, sia all'università - tramite il programma Erasmus - che al liceo.
Per quanto riguarda quest'ultimo, il programma ministeriale consiste nel trascorrere 1 quadrimestre o entrambi i quadrimestri del quarto anno di liceo (o, raramente, del terzo), in un liceo straniero.
Come sapete ormai benissimo tra quei migliaia di ragazzi ci sono stata anche io durante l'anno scolastico 2014-15, quando ho studiato per un anno al Mounds View High School di Shoreview, Minnesota. Ma come ho fatto?
In realtà è molto semplice: decine di associazioni in Italia si dedicano esclusivamente a questa attività, cioè permettono a ragazzi di 16-17 anni di partire per un paese straniero, quindi basta rivolgersi a loro. Dato che il processo però non è proprio semplicissimo, gli step da seguire idealmente sono questi:
WEP, Intercultura, You Abroad, STS, EF, Interstudio, Mondoinsieme, sono solo alcune di queste. Basta cercare su Google e vi si aprirà un modo di possibilità.
La differenza maggiore tra tutte queste è che Intercultura è un'associazione basata su reddito e borse di studio: lo studente non può scegliere il paese per il quale vuole partire, ma può soltanto indicare una classifica dei 10 preferiti; sarà poi mandato in uno di questi 10 se vincerà il concorso per la sua fascia di reddito.
Tutte le altre associazioni invece hanno un prezzo fisso per ogni programma e danno la possibilità di scegliere in che paese si vuole andare. Io per esempio ho fatto richiesta esclusivamente per gli Stati Uniti.
Migliaia di ragazzi ogni anno lasciano il nostro paese per trascorrere un periodo (da 3 a 12 mesi) all'estero, sia all'università - tramite il programma Erasmus - che al liceo.
Per quanto riguarda quest'ultimo, il programma ministeriale consiste nel trascorrere 1 quadrimestre o entrambi i quadrimestri del quarto anno di liceo (o, raramente, del terzo), in un liceo straniero.
Come sapete ormai benissimo tra quei migliaia di ragazzi ci sono stata anche io durante l'anno scolastico 2014-15, quando ho studiato per un anno al Mounds View High School di Shoreview, Minnesota. Ma come ho fatto?
In realtà è molto semplice: decine di associazioni in Italia si dedicano esclusivamente a questa attività, cioè permettono a ragazzi di 16-17 anni di partire per un paese straniero, quindi basta rivolgersi a loro. Dato che il processo però non è proprio semplicissimo, gli step da seguire idealmente sono questi:
- Ricerca l'associazione che più ti piace, in giro ce ne sono davvero tantissime, ma non tutte fanno al caso tuo! Infatti differiscono per prezzi, borse di studio, flessibilità, paesi tra cui scegliere, periodi di studio, ecc.
WEP, Intercultura, You Abroad, STS, EF, Interstudio, Mondoinsieme, sono solo alcune di queste. Basta cercare su Google e vi si aprirà un modo di possibilità.
La differenza maggiore tra tutte queste è che Intercultura è un'associazione basata su reddito e borse di studio: lo studente non può scegliere il paese per il quale vuole partire, ma può soltanto indicare una classifica dei 10 preferiti; sarà poi mandato in uno di questi 10 se vincerà il concorso per la sua fascia di reddito.
Tutte le altre associazioni invece hanno un prezzo fisso per ogni programma e danno la possibilità di scegliere in che paese si vuole andare. Io per esempio ho fatto richiesta esclusivamente per gli Stati Uniti.
- Prenota diversi colloqui informativi, ogni associazione è disponibile a una seduta privata gratuita in cui potrete fare tutte le domande che vorrete. Questo sicuramente vi aiuterà a scegliere quella che più vi convince.
- Sii sicuro della tua meta, la scelta del Paese in cui andrai a vivere è importantissima. Vuoi imparare una nuova lingua o migliorare una che già sai? Vuoi vivere in un posto caldo o freddo? Hai paura di vivere troppo lontano da casa? Preferisci una cultura simile a quella italiana (es. America del Sud) o una completamente diversa (es. Asia)?
- Scegli il programma! Nel programma classico, nonché il più economico, si può solo scegliere la nazione (es. Stati Uniti, Canada, Brasile ecc). Con altri programmi (che arrivano spesso a costare anche il triplo di quello classico) si può scegliere la regione di destinazione (es. California), o il distretto (es. Area di Philadelphia) o addirittura la città (es. New York)!
- Scegli la durata! 3, 6 o 10-11 mesi?
- Aspetta l'inizio del terzo anno di liceo! E' solo a Settembre del terzo che potrai infatti dare gli esami e iscriverti al programma!
Una volta rientrati dovrete compilare un lunghissimo set di fascicoli che verranno spediti nel vostro paese ospitante, dove inizierà la ricerca per la vostra host family.
Da lì in poi il vostro compito è solo quello di stare seduti ad aspettare, fantasticando di quello che vi aspetta.
Di film mentali io poi sono stata campionessa.
Buon viaggio!
lunedì 22 febbraio 2016
Perché l'omosessualità è sbagliata?
30 Gennaio 2016. C'era tanta gente al family day, ''milioni'', dicono. In Italia, l'unico paese occidentale a cui verrebbe in mente di istituire un raduno per cercare di togliere i diritti a chi non li ha. L'unico paese dove non si scende in piazza per reclamare giustizia, ma per negarla a chi ne ha pieno diritto.
C'era tanta gente, veri cattolici, famiglie con figli, suore e preti, tipi in cravatta. Sbandieravano bandiere colorate, alzavano cartelloni al cielo. ''Sbagliato è sbagliato, anche se dovesse essere legge'', recitava uno, con tanto di coppiette blu-blu e rosa-rosa stilizzate a fianco. Così, per rendere più chiaro e crudele il concetto. E questo striscione enorme si moltiplicava in tanti piccoli pezzetti sulla la folla, in tanti fogli A4 tenuti anche loro fieramente in alto.
Un altro diceva in caratteri cubitali blu ''Dio maschio e femmina lì creò'', e un altro incomprensibilmente ''Accenderemo fuochi per testimoniare che due più due fa quattro''.
Dal palco è un continuo appellarsi alla volontà divina, nonostante l'impronta laica. E' un continuo negare i diritti alle coppie omosessuali, anziché occuparsi di allargare le opportunità delle ''famiglie tradizionali'', o come le chiamano.
Famiglie tradizionali? Amore tradizionale? Cosa è tradizionale direi io, cosa è sbagliato?
Io ero rimasta al concetto di famiglia come un nucleo fatto di amore, in ogni direzione e senza orientamenti. Pensavo che l'amore tra due persone fosse indiscutibile, andasse al di là della pelle, del colore, della razza e di qualsiasi altra cosa. Mi sono sbagliata io, o si sono sbagliati i sostenitori di questo incontro da, così lo spacciano, 2-milioni-di-persone?
Secondo voi che significato aveva la presenza di politici pluri divorziati e conviventi con le nuove compagne giovanissime, in un raduno in cui si sosteneva la famiglia ''tradizionale''? Quattro figli da tre donne diverse, due matrimoni, un figliastro, un divorzio e mezzo. Due più di due fa quattro. Tradizionalissimo.
In America ho avuto 2 cari amici gay e un insegnante lesbica, e non ci ho mai trovato niente di strano. Uno veniva a fare shopping con me, comprava i leggings da Forever 21 e gli Ugg marroni per l'inverno Minnesotiano. Ci ho messo un po' a rassegnarmi al fatto che in quanto a trucco fosse più bravo di me.
Un altro era bisex, più che gay, e nel giro di 4 mesi aveva portato a casa due fidanzati di sesso diverso. La mamma lo definiva confuso, ma felice.
Lei invece era la mia insegnante di religione in Chiesa, una specie di catechista, ma di una religione stranissima che ancora ho fatica a definire. Quando sono ripartita si era appena trasferita con la fidanzata nella loro nuova casa, si sarebbero sposate da lì a poche settimane. Mi sarebbe piaciuto esserci. Avevano intenzione di avere un figlio a testa, e di farli riconoscere come figli di entrambe. Una famiglia normalissima, due persone giovani, un amore innocente e la prospettiva di un futuro roseo: non è tradizionale questo?
Ho avuto amici gay in America ma io sono etero. Sono etero, e mi sento fortunata, perché qui in Italia non devo combattere per avere una vita come quella dei miei concittadini.
Sono Etero e ne vado fiera, sul serio. E sapete perché?
Perché con dentro il cuore l'amore per quelle persone fantastiche che ho conosciuto nell'altro continente, dentro la testa la consapevolezza che non c'è diversità ma solo uguaglianza, sono un etero che vuole difendere (o meglio istituire) quei diritti anziché negarli, anche se a me in concreto non cambierebbe niente.
Ogni giorno in Italia si sposano in tantissimi, eppure non me ne sono mai accorta, non ne ho mai subito le conseguenze, semplicemente perché le conseguenze non ci sono se non la felicità di quelle persone il cui amore e legame è riconosciuto dallo Stato! Uno Stato che al momento anziché unire, vorrebbe dividere queste persone, non includerle ma escluderle, discriminando invece di tutelare.
Insomma sono Etero, eppure al Circo Massimo non ci sarei neanche voluta passare per sbaglio. Avrei respirato troppa aria di omofobia, nata dalla convinzione che l'omosessualità sia patologica, contro natura, immorale, socialmente pericolosa, o come preferivano dire sui loro cartelloni, semplicemente ''sbagliata''. Avrei incontrato persone convinte di voler allontanare da sé qualcosa che non lede alla propria sessualità, né alla propria vita, né alla propria esistenza in genere, e in virtù dei propri gusti sessuali vogliono negare il matrimonio laico tra due omosessuali.
Perché sono Etero, dicevamo. E se un giorno avrò figli vorrei che crescessero in un paese civile. Vorrei che credessero in una religione che se dice di accettare tutti e perdonare tutto, lo faccia concretamente, senza esclusione di alcun tipo; e che la stessa non faccia il gioco di ignorare e perdonare la pedofilia, e avere il coraggio al tempo stesso di rifiutare l'omosessualità.
E se un giorno questi figli scoprissero di essere gay vorrei che non avessero diritti ipotetici, o meglio, inesistenti, ma dei diritti certi, senza patire discriminazione o provare vergogna della loro natura.
Badate bene, natura. E' questione di natura, non di scelta, di malattia, di problemi psicologici, fisici o traumi di alcun genere. Chi avrebbe scelto di confessarsi ebreo in Germania sotto il governo Nazista?
Sono etero eppure sto dalla parte giusta.
Sono etero, ma anche se non lo fossi, sarebbe lo stesso.
C'era tanta gente, veri cattolici, famiglie con figli, suore e preti, tipi in cravatta. Sbandieravano bandiere colorate, alzavano cartelloni al cielo. ''Sbagliato è sbagliato, anche se dovesse essere legge'', recitava uno, con tanto di coppiette blu-blu e rosa-rosa stilizzate a fianco. Così, per rendere più chiaro e crudele il concetto. E questo striscione enorme si moltiplicava in tanti piccoli pezzetti sulla la folla, in tanti fogli A4 tenuti anche loro fieramente in alto.
Un altro diceva in caratteri cubitali blu ''Dio maschio e femmina lì creò'', e un altro incomprensibilmente ''Accenderemo fuochi per testimoniare che due più due fa quattro''.
Dal palco è un continuo appellarsi alla volontà divina, nonostante l'impronta laica. E' un continuo negare i diritti alle coppie omosessuali, anziché occuparsi di allargare le opportunità delle ''famiglie tradizionali'', o come le chiamano.
Famiglie tradizionali? Amore tradizionale? Cosa è tradizionale direi io, cosa è sbagliato?
Io ero rimasta al concetto di famiglia come un nucleo fatto di amore, in ogni direzione e senza orientamenti. Pensavo che l'amore tra due persone fosse indiscutibile, andasse al di là della pelle, del colore, della razza e di qualsiasi altra cosa. Mi sono sbagliata io, o si sono sbagliati i sostenitori di questo incontro da, così lo spacciano, 2-milioni-di-persone?
Secondo voi che significato aveva la presenza di politici pluri divorziati e conviventi con le nuove compagne giovanissime, in un raduno in cui si sosteneva la famiglia ''tradizionale''? Quattro figli da tre donne diverse, due matrimoni, un figliastro, un divorzio e mezzo. Due più di due fa quattro. Tradizionalissimo.
In America ho avuto 2 cari amici gay e un insegnante lesbica, e non ci ho mai trovato niente di strano. Uno veniva a fare shopping con me, comprava i leggings da Forever 21 e gli Ugg marroni per l'inverno Minnesotiano. Ci ho messo un po' a rassegnarmi al fatto che in quanto a trucco fosse più bravo di me.
Un altro era bisex, più che gay, e nel giro di 4 mesi aveva portato a casa due fidanzati di sesso diverso. La mamma lo definiva confuso, ma felice.
Lei invece era la mia insegnante di religione in Chiesa, una specie di catechista, ma di una religione stranissima che ancora ho fatica a definire. Quando sono ripartita si era appena trasferita con la fidanzata nella loro nuova casa, si sarebbero sposate da lì a poche settimane. Mi sarebbe piaciuto esserci. Avevano intenzione di avere un figlio a testa, e di farli riconoscere come figli di entrambe. Una famiglia normalissima, due persone giovani, un amore innocente e la prospettiva di un futuro roseo: non è tradizionale questo?
Ho avuto amici gay in America ma io sono etero. Sono etero, e mi sento fortunata, perché qui in Italia non devo combattere per avere una vita come quella dei miei concittadini.
Sono Etero e ne vado fiera, sul serio. E sapete perché?
Perché con dentro il cuore l'amore per quelle persone fantastiche che ho conosciuto nell'altro continente, dentro la testa la consapevolezza che non c'è diversità ma solo uguaglianza, sono un etero che vuole difendere (o meglio istituire) quei diritti anziché negarli, anche se a me in concreto non cambierebbe niente.
Ogni giorno in Italia si sposano in tantissimi, eppure non me ne sono mai accorta, non ne ho mai subito le conseguenze, semplicemente perché le conseguenze non ci sono se non la felicità di quelle persone il cui amore e legame è riconosciuto dallo Stato! Uno Stato che al momento anziché unire, vorrebbe dividere queste persone, non includerle ma escluderle, discriminando invece di tutelare.
Insomma sono Etero, eppure al Circo Massimo non ci sarei neanche voluta passare per sbaglio. Avrei respirato troppa aria di omofobia, nata dalla convinzione che l'omosessualità sia patologica, contro natura, immorale, socialmente pericolosa, o come preferivano dire sui loro cartelloni, semplicemente ''sbagliata''. Avrei incontrato persone convinte di voler allontanare da sé qualcosa che non lede alla propria sessualità, né alla propria vita, né alla propria esistenza in genere, e in virtù dei propri gusti sessuali vogliono negare il matrimonio laico tra due omosessuali.
Perché sono Etero, dicevamo. E se un giorno avrò figli vorrei che crescessero in un paese civile. Vorrei che credessero in una religione che se dice di accettare tutti e perdonare tutto, lo faccia concretamente, senza esclusione di alcun tipo; e che la stessa non faccia il gioco di ignorare e perdonare la pedofilia, e avere il coraggio al tempo stesso di rifiutare l'omosessualità.
E se un giorno questi figli scoprissero di essere gay vorrei che non avessero diritti ipotetici, o meglio, inesistenti, ma dei diritti certi, senza patire discriminazione o provare vergogna della loro natura.
Badate bene, natura. E' questione di natura, non di scelta, di malattia, di problemi psicologici, fisici o traumi di alcun genere. Chi avrebbe scelto di confessarsi ebreo in Germania sotto il governo Nazista?
Sono etero eppure sto dalla parte giusta.
Sono etero, ma anche se non lo fossi, sarebbe lo stesso.
martedì 22 dicembre 2015
Amore 2.0
Ci chiamano generazione 2.0.
La generazione 2.0 che si innamora a 14 anni.
Si innamora a 14 anni, in un qualsiasi giro in centro, quando per combattere l'ansia di vivere ha bisogno di scaldarsi il cuore.
Si innamora su Facebook, girando profili in cerca di compagnia, e in discoteca per trovare un diversivo. Incrocia sguardi passeggiando e ne sceglie uno, uno qualsiasi, uno che gli possa far fare bella figura nelle foto su Instagram e che sia popolare su Twitter così i seguaci lievitano a vista d'occhio.
Il loro amore è così profondo che sbandierarlo sui social è inevitabile, così veritiero che lo stato di Facebook passa da single a ufficialmente impegnato. E per ogni rosa c'è una foto, per ogni bacio un selfie con citazione dal libro di filosofia del liceo, per ogni mesiversario un poema di 3 pagine per giurarsi amore eterno.
Poi ci sono io.
Io e gli altri pazzi che si innamorano sul serio, a 14 anni, e che non mollano la presa perché hanno bisogno l'uno dell'altro. Per anni, o per sempre, camminano per mano e non la vogliono smettere.
C'è una lei che ha cominciato presto. Era piccola, un po' spaventata, ma non abbastanza da non sentire il bisogno di farsi avanti, smuovere le cose, non perdere un attimo di tempo.
Bea in quegli occhi verdi ci vedeva il mondo e tutti i pianeti, ed ha imparato ad amarli, col tempo; ed è lì che ha cominciato a cambiare. Sì è allontanata dalla generazione 2.0, assumendo una spaventosa consapevolezza della sua diversità. Inusuale per un metro e settanta di ricci marroni.
Inusuale per una cinica e permalosa, che viveva in attesa del suo Richard Gere come in Pretty Woman, giurando di non accettare mai nulla che fosse meno di ciò che voleva.
Ma Bea è una bambina, e una bambina è una donna, e vuole i fiori a casa, le coccole sotto le coperte, le sorprese fuori casa, le fughe e le avventure. Bea è il centro dell'universo, vuole essere rassicurata, e ha bisogno di un Richard che non abbia difficoltà a mostrare, con gesti e parole, quanto la sua piccola 14enne sia importante.
Così un giorno ha letto troppi libri, ha riso troppo forte, ha ingoiato troppo vino, ed è andata via. Ha detto ciao a tutta la sua vita, si è voltata, e ha fatto un'altra strada per la via di casa per bisogno di aria nuova.
Lì, su quella stessa via che per 3 anni ha visto i loro passi affiancati e coordinati.
Bea infondo non è della vostra g-e-n-e-r-a-z-i-o-n-e 2.0. I mi piace a quella tipa non le sono mai piaciuti e il suo Richard doveva avere una sola donna, non 5. Forse non si bastavano più.
D'altronde lei si conosce, lei lo conosce. Conosce a memoria tutti i suoi sbagli, e quelli di lui, e sa che si erano persi sulla via del fatidico ritorno, e che davvero, forse per la prima volta, mettere un angolo alla pagina e chiudere il libro per riprenderlo più tardi, dallo stesso punto in cui lo aveva lasciato, era la scelta giusta.
Ma Bea la porta l'ha chiusa piano piano mentre la generazione corre veloce. Nuove facce su Facebook si tuffano in una chat pulita, appena aperta, pronte a mangiare il suo caro vecchio Richard. Che in quel boccone ci capiti un nuovo riccio tenerino è il suo augurio. O meglio, è la sua speranza per il suo Richard 2.0. Due punto zero, nuovo, irriconoscibile, come i ragazzi di questi tempi, malati di assenze, incapaci di presenze. Ssh, è ora di fare silenzio su Whatsapp, non c'è tempo per amori 2.0, l'upgrade delle nostre relazioni.
La generazione 2.0 che si innamora a 14 anni.
Si innamora a 14 anni, in un qualsiasi giro in centro, quando per combattere l'ansia di vivere ha bisogno di scaldarsi il cuore.
Si innamora su Facebook, girando profili in cerca di compagnia, e in discoteca per trovare un diversivo. Incrocia sguardi passeggiando e ne sceglie uno, uno qualsiasi, uno che gli possa far fare bella figura nelle foto su Instagram e che sia popolare su Twitter così i seguaci lievitano a vista d'occhio.
Il loro amore è così profondo che sbandierarlo sui social è inevitabile, così veritiero che lo stato di Facebook passa da single a ufficialmente impegnato. E per ogni rosa c'è una foto, per ogni bacio un selfie con citazione dal libro di filosofia del liceo, per ogni mesiversario un poema di 3 pagine per giurarsi amore eterno.
Poi ci sono io.
Io e gli altri pazzi che si innamorano sul serio, a 14 anni, e che non mollano la presa perché hanno bisogno l'uno dell'altro. Per anni, o per sempre, camminano per mano e non la vogliono smettere.
C'è una lei che ha cominciato presto. Era piccola, un po' spaventata, ma non abbastanza da non sentire il bisogno di farsi avanti, smuovere le cose, non perdere un attimo di tempo.
Bea in quegli occhi verdi ci vedeva il mondo e tutti i pianeti, ed ha imparato ad amarli, col tempo; ed è lì che ha cominciato a cambiare. Sì è allontanata dalla generazione 2.0, assumendo una spaventosa consapevolezza della sua diversità. Inusuale per un metro e settanta di ricci marroni.
Inusuale per una cinica e permalosa, che viveva in attesa del suo Richard Gere come in Pretty Woman, giurando di non accettare mai nulla che fosse meno di ciò che voleva.
Ma Bea è una bambina, e una bambina è una donna, e vuole i fiori a casa, le coccole sotto le coperte, le sorprese fuori casa, le fughe e le avventure. Bea è il centro dell'universo, vuole essere rassicurata, e ha bisogno di un Richard che non abbia difficoltà a mostrare, con gesti e parole, quanto la sua piccola 14enne sia importante.
Così un giorno ha letto troppi libri, ha riso troppo forte, ha ingoiato troppo vino, ed è andata via. Ha detto ciao a tutta la sua vita, si è voltata, e ha fatto un'altra strada per la via di casa per bisogno di aria nuova.
Lì, su quella stessa via che per 3 anni ha visto i loro passi affiancati e coordinati.
Bea infondo non è della vostra g-e-n-e-r-a-z-i-o-n-e 2.0. I mi piace a quella tipa non le sono mai piaciuti e il suo Richard doveva avere una sola donna, non 5. Forse non si bastavano più.
D'altronde lei si conosce, lei lo conosce. Conosce a memoria tutti i suoi sbagli, e quelli di lui, e sa che si erano persi sulla via del fatidico ritorno, e che davvero, forse per la prima volta, mettere un angolo alla pagina e chiudere il libro per riprenderlo più tardi, dallo stesso punto in cui lo aveva lasciato, era la scelta giusta.
Ma Bea la porta l'ha chiusa piano piano mentre la generazione corre veloce. Nuove facce su Facebook si tuffano in una chat pulita, appena aperta, pronte a mangiare il suo caro vecchio Richard. Che in quel boccone ci capiti un nuovo riccio tenerino è il suo augurio. O meglio, è la sua speranza per il suo Richard 2.0. Due punto zero, nuovo, irriconoscibile, come i ragazzi di questi tempi, malati di assenze, incapaci di presenze. Ssh, è ora di fare silenzio su Whatsapp, non c'è tempo per amori 2.0, l'upgrade delle nostre relazioni.
lunedì 7 dicembre 2015
Cosa vuoi fare da grande?
Cosa vuoi fare da grande è una domanda che ci viene chiesta da quando abbiamo 3 anni e sogniamo di essere ballerine, astronauti e presidenti, a quando arriviamo a fare una scelta concreta. A quel punto, ci lasciano in pace. Si presuppone infatti che se sei regolarmente iscritto a Medicina alla Cattolica e frequenti allegramente, allora ''da grande voglio fare il medico''.
Ma per arrivare a scegliere quella benedetta facoltà, eccome se si suda.
Ci chiedono cosa vogliamo fare da grande durante tutti gli anni delle scuole, e noi magari un'idea anche ce l'abbiamo ma la teniamo per noi stessi. Sarà la paura di non essere all'altezza o l'amara consapevolezza che l'idea è troppo lontana e troppo grande per essere realizzata, e ci limitiamo sempre a un ''c'è tempo''.
E' vero, c'è tempo per pensarci, c'è sempre stato tempo, dato che è da anni che uso quella risposta per sviare il discorso e allontanare l'ansia. Ma quando si arriva a 18 anni, al primo quadrimestre di Liceo Scientifico, con una responsabilità enorme sulle spalle, la scusa del tempo non vale più. E cosa rispondiamo?
Penso che vorrei fare la video maker, montare i trailer di Hunger Games per far impazzire milioni di spettatori nell'attesa; la youtuber, e incontrare Pewds nello Youtube Space a Los Angeles, quando ci passa; la life style photographer, e girarmene beatamente per il mondo come fanno Jay Alvarrez e Alexis Ren e la loro vita perfetta; la blogger, ma non di questo blog, di qualcosa di enorme e di successo. Vorrei fare un progetto come il Follow me di Murad Osmann per viaggiare in tutto il mondo, e la modella di Victoria's Secret a cui si specchia metà popolazione femminile; la designer di interni per lavorare sugli attici di Beverly Hills e far vivere super star in capolavori di case e la graphic designer così questo sito sarebbe un po' più carino.
Alla fine, dopo una serie di pensieri che si susseguono velocissimi e che non faccio in tempo a delineare per bene, dopo un paio di film ed essermi immaginata surfista sulle onde di Miami e ginnasta alle olimpiadi di Londra che manco un Oscar mi basterebbe come premio, rispondo che farò i test all'università e poi 'vedremo come va'.
Sì, vedremo come va a vivere le mie decine di seconde storie nella mente per una vita intera, e a precludermi di provare a fare qualcosa di alternativo solo per il gusto di aver tentato.
Anche se forse va bene così, che se fossimo tutti youtuber gli spettatori non li farebbe nessuno.
Ma per arrivare a scegliere quella benedetta facoltà, eccome se si suda.
Ci chiedono cosa vogliamo fare da grande durante tutti gli anni delle scuole, e noi magari un'idea anche ce l'abbiamo ma la teniamo per noi stessi. Sarà la paura di non essere all'altezza o l'amara consapevolezza che l'idea è troppo lontana e troppo grande per essere realizzata, e ci limitiamo sempre a un ''c'è tempo''.
E' vero, c'è tempo per pensarci, c'è sempre stato tempo, dato che è da anni che uso quella risposta per sviare il discorso e allontanare l'ansia. Ma quando si arriva a 18 anni, al primo quadrimestre di Liceo Scientifico, con una responsabilità enorme sulle spalle, la scusa del tempo non vale più. E cosa rispondiamo?
Penso che vorrei fare la video maker, montare i trailer di Hunger Games per far impazzire milioni di spettatori nell'attesa; la youtuber, e incontrare Pewds nello Youtube Space a Los Angeles, quando ci passa; la life style photographer, e girarmene beatamente per il mondo come fanno Jay Alvarrez e Alexis Ren e la loro vita perfetta; la blogger, ma non di questo blog, di qualcosa di enorme e di successo. Vorrei fare un progetto come il Follow me di Murad Osmann per viaggiare in tutto il mondo, e la modella di Victoria's Secret a cui si specchia metà popolazione femminile; la designer di interni per lavorare sugli attici di Beverly Hills e far vivere super star in capolavori di case e la graphic designer così questo sito sarebbe un po' più carino.
Alla fine, dopo una serie di pensieri che si susseguono velocissimi e che non faccio in tempo a delineare per bene, dopo un paio di film ed essermi immaginata surfista sulle onde di Miami e ginnasta alle olimpiadi di Londra che manco un Oscar mi basterebbe come premio, rispondo che farò i test all'università e poi 'vedremo come va'.
Sì, vedremo come va a vivere le mie decine di seconde storie nella mente per una vita intera, e a precludermi di provare a fare qualcosa di alternativo solo per il gusto di aver tentato.
Anche se forse va bene così, che se fossimo tutti youtuber gli spettatori non li farebbe nessuno.
venerdì 20 novembre 2015
Scuola Italo-Americana
Vivendo un anno all'estero, si notano notevolmente le differenze tra il paese in cui si sta vivendo e il proprio paese di origine. Nel mio caso, America-Italia, le discrepanze erano piuttosto evidenti.
Occupazione, economia, mentalità, possibilità di realizzarsi: potrei stare qui ad elencare milioni di cose che non combaciano tra ''i miei due mondi''.
Ma c'è una cosa in particolare che mi ha lasciato mesi da riflettere: la high school e il liceo messi a confronto.
A differenza di quanto molti di voi possano credere, non scambierei la mia scuola italiana per quella americana, a favore di club, cheerleader, armadietti e le solite cose da film. Piuttosto, la mia scuola ideale è una scuola Italo-Americana, una scuola in cui le mancanze americane siano riempite dalle eccellenze italiane e le nostre intransigenze vengano smorzate dalle loro libertà.
Nella mia scuola Italo-Americana si entra alle 8.20 come nel bel paese. Con la mente riposata e una giornata scolastica più corta, diventa facile concentrarsi.
Le ore sono da 54 minuti, con una pausa di 6 minuti tra una e l'altra, come una breve ricreazione del passing time americano, ma senza il loro tran tran ansiogeno. Cioè, in quei 6 minuti non si va all'armadietto correndo per cambiare i libri e arrivare alla prossima aula dall'altra parte della scuola in orario, ma si chiacchiera comodamente in classe o per il corridoio con gli amici per rinfrescarsi la mente e concedersi una breve pausa.
Gli armadietti sono assegnati ad ogni alunno e allineati per il corridoio come negli US, così che le cose che non servono a casa ma solo in classe possono stare lì in modo da alleggerire lo zaino da portarsi sulle spalle.
I compiti in classe e le interrogazioni derivano direttamente dal sistema scolastico Italiano: in America non viene abbastanza impartito un metodo di studio efficiente e non viene insegnato a tutti a sostenere colloqui formali, cosa che invece trovo indispensabile per la formazione dello studente.
Addio quindi test a crocette, progetti di gruppo dove alla fine lavora un solo malcapitato e programmi che non lasciano niente a chi li ha seguiti.
I programmi sarebbero un perfetto connubio tra Italia e America. Decisamente meno impegnativi dell'Italia, ma più formativi di quelli americani. Ho sempre trovato inutile quanto la scuola italiana porti a specializzarsi in tanti ambiti, e la maggior parte delle conoscenze acquisite vengano poi dimenticate e mai sfruttate, perché all'università si decide di studiare qualcosa di completamente diverso (metti la chimica organica del liceo scientifico, e giurisprudenza).
Dal Lunedì al Venerdì si affrontano 5 materie al giorno, nella propria classe e sempre con gli stessi compagni, in modo da favorire un ambiente più familiare e amichevole e la creazione di un team, come di solito avviene qui.
Il Sabato invece è il turno di 5 corsi a scelta dello studente su modello Americano: si ha così la possibilità di cambiare classe ogni ora e instaurare connessioni con un maggior numero di studenti, e l'occasione di imparare qualcosa di originale rispetto alle solite materie italiane e studiare cose attinenti al proprio piano di studi universitario.
Ad esempio un ragazzo che è interessato a studiare economia dopo il liceo, potrebbe frequentare la classe di macroeconomia 1 ora a settimana il Sabato.
Chi ha voglia di cimentarsi in un nuovo hobby, ha a disposizione corsi di fotografia, yoga, cucina, video making, scrittura creativa, web design (...)
Quelli che vogliono entrare a medicina, possono seguire corsi di ripasso e approfondimento delle materie scientifiche degli alpha test.
Il rapporto professore-studente è decisamente meno rigido. I professori sono giovani e continuamente stimolati con corsi di aggiornamento, workshop e seminari sui nuovi metodi di insegnamento.
Così la tecnologia sarebbe parte integrante dell'ora di lezione, proprio come negli States.
Ad ogni alunno sarebbe concesso portare il proprio portatile/iPad/smartphone per prendere appunti, seguire la lezione online e fare esercizi, che rende l'apprendimento molto più veloce.
Come in Italia, al liceo niente mensa e all'1.20 si torna a casa.
Il carico dei compiti però è inferiore, dal momento che la maggior parte del lavoro si concentra durante le ore di lezione.
Piuttosto, i ragazzi sono incoraggiati a prendere parte alle attività pomeridiane: club e sport, che sono parte integrante della vita scolastica.
Se fosse davvero così, se la scuola potesse trasformarsi in questo connubio perfetto, io sarei cresciuta cheerleader italiana, avrei dato maggior valore allo sport, ai miei hobby, avrei vissuto la scuola con molta meno ansia e avrei sfruttato meglio il mio tempo.
Senza quelle corse di ripasso dell'ultimo giorno e gli esami di stato che mirano ad assegnarti un voto sulla base della prestazione di una settimana di giugno, come se tu non fossi quella dei cinque anni precedenti (e dei 13 ancora prima), io sarei più me e meno Masci di Quinta E.
Io sarei più ragazzina e meno universitaria.
Io sarei più cultura generale e meno specializzazione.
Io sarei più umana e meno numero.
Occupazione, economia, mentalità, possibilità di realizzarsi: potrei stare qui ad elencare milioni di cose che non combaciano tra ''i miei due mondi''.
Ma c'è una cosa in particolare che mi ha lasciato mesi da riflettere: la high school e il liceo messi a confronto.
A differenza di quanto molti di voi possano credere, non scambierei la mia scuola italiana per quella americana, a favore di club, cheerleader, armadietti e le solite cose da film. Piuttosto, la mia scuola ideale è una scuola Italo-Americana, una scuola in cui le mancanze americane siano riempite dalle eccellenze italiane e le nostre intransigenze vengano smorzate dalle loro libertà.
Nella mia scuola Italo-Americana si entra alle 8.20 come nel bel paese. Con la mente riposata e una giornata scolastica più corta, diventa facile concentrarsi.
Le ore sono da 54 minuti, con una pausa di 6 minuti tra una e l'altra, come una breve ricreazione del passing time americano, ma senza il loro tran tran ansiogeno. Cioè, in quei 6 minuti non si va all'armadietto correndo per cambiare i libri e arrivare alla prossima aula dall'altra parte della scuola in orario, ma si chiacchiera comodamente in classe o per il corridoio con gli amici per rinfrescarsi la mente e concedersi una breve pausa.
Gli armadietti sono assegnati ad ogni alunno e allineati per il corridoio come negli US, così che le cose che non servono a casa ma solo in classe possono stare lì in modo da alleggerire lo zaino da portarsi sulle spalle.
I compiti in classe e le interrogazioni derivano direttamente dal sistema scolastico Italiano: in America non viene abbastanza impartito un metodo di studio efficiente e non viene insegnato a tutti a sostenere colloqui formali, cosa che invece trovo indispensabile per la formazione dello studente.
Addio quindi test a crocette, progetti di gruppo dove alla fine lavora un solo malcapitato e programmi che non lasciano niente a chi li ha seguiti.
I programmi sarebbero un perfetto connubio tra Italia e America. Decisamente meno impegnativi dell'Italia, ma più formativi di quelli americani. Ho sempre trovato inutile quanto la scuola italiana porti a specializzarsi in tanti ambiti, e la maggior parte delle conoscenze acquisite vengano poi dimenticate e mai sfruttate, perché all'università si decide di studiare qualcosa di completamente diverso (metti la chimica organica del liceo scientifico, e giurisprudenza).
Dal Lunedì al Venerdì si affrontano 5 materie al giorno, nella propria classe e sempre con gli stessi compagni, in modo da favorire un ambiente più familiare e amichevole e la creazione di un team, come di solito avviene qui.
Il Sabato invece è il turno di 5 corsi a scelta dello studente su modello Americano: si ha così la possibilità di cambiare classe ogni ora e instaurare connessioni con un maggior numero di studenti, e l'occasione di imparare qualcosa di originale rispetto alle solite materie italiane e studiare cose attinenti al proprio piano di studi universitario.
Ad esempio un ragazzo che è interessato a studiare economia dopo il liceo, potrebbe frequentare la classe di macroeconomia 1 ora a settimana il Sabato.
Chi ha voglia di cimentarsi in un nuovo hobby, ha a disposizione corsi di fotografia, yoga, cucina, video making, scrittura creativa, web design (...)
Quelli che vogliono entrare a medicina, possono seguire corsi di ripasso e approfondimento delle materie scientifiche degli alpha test.
Il rapporto professore-studente è decisamente meno rigido. I professori sono giovani e continuamente stimolati con corsi di aggiornamento, workshop e seminari sui nuovi metodi di insegnamento.
Così la tecnologia sarebbe parte integrante dell'ora di lezione, proprio come negli States.
Ad ogni alunno sarebbe concesso portare il proprio portatile/iPad/smartphone per prendere appunti, seguire la lezione online e fare esercizi, che rende l'apprendimento molto più veloce.
Come in Italia, al liceo niente mensa e all'1.20 si torna a casa.
Il carico dei compiti però è inferiore, dal momento che la maggior parte del lavoro si concentra durante le ore di lezione.
Piuttosto, i ragazzi sono incoraggiati a prendere parte alle attività pomeridiane: club e sport, che sono parte integrante della vita scolastica.
Se fosse davvero così, se la scuola potesse trasformarsi in questo connubio perfetto, io sarei cresciuta cheerleader italiana, avrei dato maggior valore allo sport, ai miei hobby, avrei vissuto la scuola con molta meno ansia e avrei sfruttato meglio il mio tempo.
Senza quelle corse di ripasso dell'ultimo giorno e gli esami di stato che mirano ad assegnarti un voto sulla base della prestazione di una settimana di giugno, come se tu non fossi quella dei cinque anni precedenti (e dei 13 ancora prima), io sarei più me e meno Masci di Quinta E.
Io sarei più ragazzina e meno universitaria.
Io sarei più cultura generale e meno specializzazione.
Io sarei più umana e meno numero.
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